Diana al bagno: l’eroico furore di Atteone

Il dipinto raffigura il momento appena precedente alla trasformazione di Atteone in cervo. La scena è ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio, nello specifico dal mito di Diana e Atteone. Il racconto ovidiano si inserisce nella narrativa arcadica, il cui nome è mutuato dalla regione mitica dell’Arcadia, luogo impermeabile all’intervento umano e contrassegnato da una natura rigogliosa e indomabile, nonché teatro di un’esistenza idilliaca, incentrata su valori perduti. La cultura arcadica, da cui la narrativa omonima scaturisce, gioca sul tema della decadenza dei valori dovuta al progresso, intravedendo nell’allontanamento dalla vita naturale la corruzione dell’intima natura umana. Ciononostante, i significati insiti nell’opera non si esauriscono nella svalutazione dell’esistenza mondana ed opulente.

Nel mito, Atteone, figlio di Cadmo e cacciatore, sta peregrinando in una boscaglia all’interno della vallata detta Gargàfia, luogo incontaminato, ricolmo di pini e cipressi, nonché consacrato alla «succinta» Diana. Similmente all’Arcadia, la Gargàfia è uno scenario ameno, immacolato e inesplorato: questo velo di mistero fungerà da propellente per l’esplorazione di Atteone. La presenza di Diana nella vallata testimonia, infatti, la natura divina del luogo. In questo senso, la curiosità di Atteone si configura sotto forma di un desiderio di conoscenza, ovvero come una ricerca del divino, simboleggiato dalla figura della ninfa.


“C’era una grotta non toccata ancora da piede umano e che, pur naturale, aveva un non so che di artificiale: fatto di viva pomice e di tufo assai leggero s’era sviluppato spontaneo un arco; sulla destra frusciava e luccicava una sorgente dall’acqua pura e tersa, e un bordo erboso ne ornava tutt’intorno la fessura. Qui, quando si stancava di cacciare, di puri fiotti la virginea dea irrorava il suo corpo”

Ovidio, Metamorfosi


Proprio la ninfa viene sorpresa da Atteone mentre è intenta a tergersi il corpo in una fonte. Le ninfe che l’accompagnavano cercano perciò di assieparsi intorno alla figura di Diana, coprendo le sue nudità, ma senza sortire effetto: Atteone aveva già violato con lo sguardo il corpo della «virginea dea». Per punirlo, Diana gli getta addosso dell’acqua raccolta dalla fonte, maledicendolo. Lo si nota anche nell’opera, dove Diana, riconoscibile grazie al diadema a mezzaluna, ha il braccio proteso in direzione del cacciatore. Da lì a poco, le membra di Atteone mutano e lo trasformano in un cervo. Fuggendo in balia dello sgomento, il cacciatore si imbatte nei suoi cani, i quali, ritenendolo una preda, lo sbranano.


Il mito avrà molta fortuna, anzitutto per il suo spiccato connotato metaforico, di cui si serviranno ora filosofi, ora letterati. L’inversione dei ruoli su cui Ovidio gioca, trasformando il cacciatore Atteone in una preda, e cioè l’oggetto di desiderio nel soggetto che desidera, si presta di fatto a molteplici allusioni, volte a veicolare i messaggi più disparati.

Tra le ricezioni del mito più celebri, menzioniamo quella di Giordano Bruno. Il filosofo di Nola si serve dello scenario mitologico ovidiano per esemplificare la sua gnoseologia (dal greco gnosis, ‘conoscenza’, più -logia, ‘discorso’, ovvero ‘studio dei problemi conoscitivi’) e cosmogonia (dal greco kosmos, ‘cosmo, mondo, più –gonia, ‘generazione’, ovvero ‘dottrina sull’origine del mondo’).


“Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo  che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé dalla bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità.”

Giordano Bruno, De gli eroici furori


Atteone, nella visione di Bruno, fa il paio con il soggetto conoscente, in particolare con quegli esseri umani bramosi di conoscere la verità, risalendo dalla realtà sensibile a quella divina. Questa brama è definita dal filosofo “eroico furore”. I cani che conducono il cacciatore al cospetto della ninfa simboleggiano l’intelletto e la volontà di Atteone, mentre Diana l’opera divina. Pur essendo composta di materia, la ninfa è difatti il riflesso della «beltà divina», ovvero l’impronta dell’intervento divino nell’aldiquà (termine coniato in contrapposizione ad aldilà; indica il mondo terreno o non-spirituale).

Tuttavia, Atteone non ha ancora compreso la natura intima del reale. Egli crede, muovendo i suoi primi passi nel cammino conoscitivo, che la verità e Dio siano trascendenti, e cioè che abitino una realtà sovrasensibile. Agli occhi di Bruno, Atteone è ancorato a quella visione ingenua che vede una netta contrapposizione tra Dio e la materia, tra l’oggetto di conoscenza e il soggetto conoscente. La trasformazione di Atteone in cervo simboleggia così il dissolvimento di ogni dicotomia (da dikhotomia greco, ovvero ‘divisione in due parti’), la risoluzione della trascendenza nell’immanenza (da ‘immanente’, derivato dal verbo latino immanere, ‘rimanere dentro’, ovvero ‘ciò che è insito in qualcosa’): l’oggetto di conoscenza diviene il soggetto che lo conosce e Dio la materia che, sulle prime, Atteone desidera trascendere.

A livello gnoseologico, l’intelletto comprende i suoi oggetti assimilandoli, e ciò convertendo l’esterno in interno; a livello ontologico (da ‘ontologia’, termine derivato dal greco ontos, ‘ente, essere’, più –logia, ‘discorso’, ovvero ‘lo studio dell’essere o degli enti’), Dio è immanente alla materia e non abita un “altrove” mistico e spirituale. Perciò, non occorre più che i cani del cacciatore lo guidino alla ricerca di qualcosa di esterno, poiché la verità, la «beltà divina» e, in ultimo, la forza creatrice del cosmo costituiscono elementi insiti nel corpo e nella mente di Atteone, come nella natura tutta.

La scena cruenta che chiosa la vicenda, pertanto, è al contempo la massima espressione della consapevolezza di Atteone; vale a dire, il coronamento del suo eroico furore, e cioè la volontà e l’intelletto che designano, infine, ciò che è sia il contenuto che la forma della conoscenza: l’essere umano.

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